Appunti sulla psicologia di Schopenhauer

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 18 novembre 2023.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]

 

Al seminario sull’Arte del Vivere abbiamo ripreso, sia pur brevemente, una vecchia traccia di studio: indagare le riflessioni psicologiche dei filosofi per ricavarne informazioni sulla loro psicologia. In particolare, abbiamo preso le mosse da un piccolo brano tratto dagli Aforismi sulla saggezza del vivere di Schopenhauer.

 

Il filosofo tedesco, in realtà nato a Danzica (Polonia) e cittadino espatriato del Regno di Prussia attivo come traduttore e orientalista, ricalcando lo schema dell’Etica nicomachea di Aristotele, adotta nella partizione generale degli Aforismi e nell’intenzione speculativa la distinzione in tre determinazioni del soggetto: ciò che uno è (la personalità); ciò che una ha (la proprietà); ciò che uno rappresenta (l’immagine sociale). Ma in realtà, non avendo strumenti affidabili ed efficaci quali i paradigmi attuali della psicologia e delle neuroscienze, non opera distinzioni tra l’oggettivo (o oggettivabile) e il soggettivo (interpretato) delle tre determinazioni, rivelando in filigrana esigenze ed esperienze personali.

Ad esempio, è evidente che da una reazione a personali esperienze negative nelle conversazioni di salotto vengono le considerazioni impropriamente generalizzate, che figurano al numero “26” di Consigli e Massime, in cui l’egocentrismo da probabile immaturità affettiva e culturale dei suoi interlocutori è riferito come caratteristica generale della gente di essere “soggettiva”:

 

La maggior parte della gente è così soggettiva che in fondo non prova interesse per altro che per sé stessa. Ne consegue che gli uomini, in tutto quello che viene detto, pensano subito a sé stessi, e ogni casuale riferimento anche lontanamente attinente a qualcosa di personale attira e occupa tutta la loro attenzione, sicché essi non sono minimamente in grado di afferrare il contenuto oggettivo del discorso; ne deriva anche che per loro nessun argomento conta quando gli si contrappongono il loro interesse e la loro vanità. Perciò si distraggono tanto facilmente, ed è così facile ferirli, offenderli, mortificarli che quando si parla con loro, anche nel modo più obiettivo, di qualunque cosa, non si sta mai abbastanza in guardia per evitare possibili riferimenti che potrebbero risultare urtanti per il loro prezioso e delicato “io”: perché questo solo importa a loro, e niente altro; e mentre essi non comprendono e non gustano nel discorso altrui quanto c’è di vero, di giusto, di bello, di raffinato, di spiritoso hanno la più delicata sensibilità per tutto ciò che anche alla lontana e indirettamente potrebbe ferire la loro meschina vanità, o che potrebbe riflettersi in qualche modo negativamente sulla loro preziosissima persona…

 

Persone che “non sono minimamente in grado di afferrare il contenuto oggettivo del discorso”, che “si distraggono tanto facilmente” e sono per giunta permalose, non appaiono certo come interlocutrici ideali per uno studioso amante della conoscenza profonda di ogni cosa; ma, dai racconti dei contemporanei, si ha motivo di ritenere che a quel tempo, come oggi, anche se abbondavano le persone superficiali, poco propense alla riflessione, ignoranti e poco mature, non costituivano la totalità e nemmeno la maggioranza negli ambienti che poteva frequentare il filosofo. Ma non abbiamo ragione di dubitare del fatto che intrattenesse molte relazioni sociali con interlocutori egocentrici.

Schopenhauer stesso, da giovane, aveva affrontato la vita in una prospettiva egocentrica, orientata alla competizione per il raggiungimento della fama e poco incline al riconoscimento del valore altrui. Solo in età matura, dopo aver raggiunto una posizione rispettabile e un’immagine sociale autorevole, cominciò a fare ammenda della sua vanità e ad aprirsi al riconoscimento di qualità anche in persone che la pensavano in modo diverso da lui. È passata alla storia la sua emotiva e assoluta avversione per Hegel, di cui era invidioso e geloso, rivelando l’incapacità di distinguere la persona dalle sue opere: lo aveva definito “il gran ciarlatano”, senza essersi preso la briga di confutarne con valide argomentazioni le tesi.

Fra le tante persone stimabili, meritevoli e di ottima compagnia che aveva conosciuto da giovane, vi era Goethe, che però non aveva frequentato, secondo alcuni biografi perché Arthur Schopenhauer sarebbe stato misantropo oltre che misogino. Ma si può dedurre un motivo psicologico che emerge da numerosi documenti: il filosofo di Danzica non aveva la serenità interiore che consente di stabilire relazioni paritetiche, e tendeva a percepire i rapporti umani come un confronto in cui si determina superiorità o inferiorità; per essere a suo agio doveva sentirsi superiore ed essere riconosciuto tale dall’interlocutore. Con Goethe, che per cultura, intelligenza e spirito aveva pochi rivali, era molto difficile per il giovane Schopenhauer essere in questo senso a proprio agio. Sembra che la stessa cosa sia accaduta col poeta Wieland, che a dodici anni aveva già concepito un grande poema sulla distruzione di Gerusalemme e, quando conobbe Schopenhauer a Weimar, era già considerato il miglior traduttore in tedesco delle lettere di Cicerone e dei poeti latini. Goethe e Wieland, come gli altri intellettuali di Weimar, avrebbero frequentato volentieri il giovane prussiano.

Che Schopenhauer non avesse raggiunto una piena maturità interiore nemmeno all’epoca di Consigli e Massime lo si evince dal fatto che non riesce a separare l’oggetto delle idee dal soggetto che le propone, e non riesce a prendere la giusta distanza affettivo-emotiva dalle proprie idee, al punto da sentire uno scontro dialettico come una minaccia per la propria identità. Le circostanze sociali di conversazione non sono per lui una semplice occasione di verifica, confronto, scambio di idee e, magari, insegnamento e apprendimento di qualcosa, sono invece una condizione in cui si disputa una partita o si combatte una battaglia, e la posta in gioco è costituita dall’immagine sociale dei contendenti. Immagine che, lungi dall’essere una semplice rappresentazione parziale e contingente di una prestazione comportamentale nella mente degli astanti, per lui è parte della realtà e può generare effetti di verità circa il valore del soggetto.

La sua identità non è sviluppata, nutrita e curata da un sistema interiorizzato di vita mentale o spirituale come nel caso dei saggi, e dipende, per la sua stabilità, da conferme esterne. Non ha dentro di sé la misura dell’uomo e si comporta come se ritenesse che l’identità si ricostituisca o si compia nel giudizio contingente degli altri, nel momento presente, in ogni circostanza che ritiene probante.

L’identità compiuta e stabile è per Schopenhauer una finzione o un abbaglio.

Questa deduzione sembra essere un’efficace chiave di lettura psicologica della sua opera più importante: Il mondo come volontà e rappresentazione (1818).

Numerosi rilievi dai documenti, segnalati da vari studiosi del filosofo di Danzica e in contrasto con l’immagine di misantropo e misogino, ci presentano una persona molto attenta alle dinamiche di rapporto sociale, immersa nelle logiche del mondo e abile nell’usarne le leve[1].

Questo essere tutto calato all’interno dei giochi sociali di potere e delle schermaglie volte a stabilire il vincitore agli occhi dei custodi dell’ordine sociale, emerge in scritti quali: L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi, L’arte di farsi rispettare esposta in 14 massime, L’arte di insultare.

Non è certo questo il livello degli antichi saggi maestri di filosofia, che non avevano lo scopo di vincere duelli verbali e usare stratagemmi per ottenere ragione o tecniche per estorcere il rispetto e, addirittura, studiare come insultare efficacemente un interlocutore: di fronte all’interesse per queste cose – che ancora oggi porta molti in libreria a comprare questi saggi – Socrate sarebbe inorridito.

In effetti gli antichi si formavano alle scuole di retorica, esercitandosi poco più che bambini nelle tecniche necessarie ad affrontare le dispute (Controversie) e avere la meglio nelle più disparate condizioni dialettiche; poi, divenuti esperti, da adolescenti si impegnavano nello studio delle tecniche mediante le quali ottenere la persuasione dell’interlocutore circa la bontà della propria tesi (Suasorie). Sia per le Controversie che per le Suasorie l’esercizio prevedeva un confronto fra parti definite da tesi contrapposte e poi l’inversione dei ruoli da parte degli allievi. Si potrebbe dire che i testi di Schopenhauer sull’ottenere ragione, farsi rispettare e saper insultare, presso gli antichi avrebbero potuto tutt’al più costituire materiale grezzo per preparare i testi delle Controversie.

In fondo, la “saggezza del vivere” di Schopenhauer non assomiglia minimamente all’arte del vivere degli antichi filosofi seguaci di Platone e Aristotele, e delle antiche scuole di Epicurei, Scettici e Stoici che avevano veicolato la saggezza greca nel modo romano; è piuttosto una raccolta di spunti e spigolature finalizzate a insegnare un savoir faire, un “saperci fare” nella vita per ottenere vantaggi affettivo-emotivi, oltre che di immagine e potere relazionale, per evitare eccessive frustrazioni nei rapporti col mondo e “sconfitte sociali” dovute a ingenuità.

Al tempo di Schopenhauer lo studio della filosofia consisteva, come oggi, nel conoscere i contenuti del pensiero dei maggiori filosofi con particolare attenzione all’ontologia e alla metafisica, non consisteva come per gli antichi nell’esercizio pratico quotidiano di quanto appreso da un maestro di pensiero, al fine di diventare saggio, maturando attraverso la conoscenza di sé stessi, dell’uomo e dei fatti della vita.

D’altra parte, se Schopenhauer avesse avuto la capacità che avevano gli antichi filosofi di conoscere le persone, si sarebbe reso conto della particolarità dei suoi interlocutori di salotto e non avrebbe scritto nella raccolta di Consigli e Massime quanto si legge nel brano contrassegnato dal numero “26”.

 

Goethe e Wieland, i due amici mancati, lo avrebbero reso più fiducioso nell’uomo. Wolfgang Amadeus Mozart conobbe Wieland a Mannheim nel 1777 e così lo descrisse: “Spaventosamente brutto, butterato dal vaiolo, col naso lungo; … a parte questo è pieno di talento… La gente lo guarda come se fosse caduto dal cielo”[2]. Mozart sorrideva delle “estasi ribelli” dei fautori dello Sturm und Drang, ma Wieland gli era piaciuto molto “perché mitigava l’asprezza delle sue satire con l’eleganza e l’indulgenza e perché sopportava di buon animo le ripetute irruzioni di nuovi artisti nel cielo letterario nel quale avrebbe potuto rivendicare un diritto di precedenza”[3].

Schiller, medico interessato alla psicologia e alle malattie della mente, poeta e filosofo, riferisce così del suo incontro a Weimar con Wieland: “Il tipo di rapporto che stabilì immediatamente con me rivelava fiducia, affetto e stima”[4]. Dirà poi: “Wieland ed io diventiamo ogni giorno più intimi. Non perde occasione per dirmi una parola gentile”.

Il giovane Schopenhauer, con i suoi occhi azzurri, i capelli chiari, i lineamenti regolari e le folle di ammiratrici al seguito, non avrebbe certo potuto temere l’anziano Wieland come rivale nei giochi di seduzione dei salotti di Weimar, e aveva potuto constatare di persona le ragioni della fama del poeta di buon carattere e di capacità di rispetto, ascolto e attenzione verso gli altri, di cui sappiamo anche da Goethe che, nella sua autobiografia, lo ricorda con affettuosa gratitudine[5]. Per quanto riguarda quest’ultimo, a conferma della sua celebrata amabilità e della sua capacità di riconoscere il valore degli altri, abbiamo un racconto di Wieland: Goethe doveva posare per un ritratto e, per questo, sarebbe dovuto rimanere immobile seduto per molto tempo, allora chiese a Wieland di sedere accanto a lui e leggergli il suo poema Oberon appena pubblicato; l’amico non si fece pregare e cominciò a leggere le romantiche avventure di un cavaliere salvato da cento fate, dagli incantesimi di una regina e dalla bacchetta magica del principe delle fate, e Goethe ne fu entusiasta, sicché Wieland scrive: “Non ho mai visto nessuno godere tanto dell’opera di un altro”.

Niente di meglio per smentire le affermazioni di Schopenhauer e consentirci di ritenere che, se questi avesse coltivato l’amicizia con Goethe e Wieland, avrebbe con ogni probabilità fatto esperienze positive della capacità di riconoscere il valore altrui e, forse, avrebbe acquisito maggiore fiducia nel prossimo.

 

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli articoli di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-18 novembre 2023

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Schopenhauer è stato il primo filosofo moderno a scrivere libri non rivolti a filosofi ma a un ipotetico vasto pubblico di lettori, allo scopo di ottenere consenso culturale diffuso alle sue idee, sostegno e buona fama per sé. Questo rivolgersi direttamente al pubblico con un linguaggio accessibile e una prosa narrativa accattivante è stato poi seguito da studiosi di altri campi: il primo tra i medici è stato Sigmund Freud con l’Interpretazione dei sogni (1900).

[2] Einstein Alfred, Mozart, p. 19, Oxford 1945; tr. it.: Einstein, Mozart. Il carattere e l’opera, Roma 1951.

[3] “Wieland: 1775-1813” in Will e Ariel Durant, Storia della civiltà – Rousseau e la rivoluzione (4 voll.), III vol., Cap. XXIII: Weimar in fiore, p. 113, Edito-Service, Ginevra e Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1968.

[4] Schiller a Körner, 28 luglio e 29 agosto 1787, in “Wieland: 1775-1813” in Will e Ariel Durant, op. cit., idem.

[5] Cfr. Wolfgang Johann von Goethe, Truth and Fiction, I, p. 291 in Works, 14 voll., New York 1902; tr. it. Opere, 4 voll., Firenze 1948.